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Storia e spazio narrativo

31 gennaio 2014 @ 17:35 Categoria: Storia & Cultura

[1]L’Aquila – di GIANFRANCO GIUSTIZIERI, Associazione internazionale di cultura Laudomia Bonanni -
L’articolo di Patrizia Tocci, Ricostruzione pura e limpida come i gigli, uscito recentemente sulle pagine de «il Centro» giustamente richiama un suo percorso di studio e di documentazione su uno degli elzeviri più conosciuti della scrittrice aquilana Laudomia Bonanni, I fiori del terremoto. Contemporaneamente la Tocci auspica una conservazione e diffusione del «fiore del terremoto» come simbolo di unione del presente con un tempo passato ed un tempo futuro al cui appello ci uniamo senza riserve.
Ma il ricordo dell’elzeviro pone il problema di un confronto con alcune pagine del recente libro di Maurizio D’Antonio Ita terrae motus damna impedire dove l’autore rivisita, in un percorso approfondito, le diverse tecniche antisismiche in Abruzzo che la storia ci ha tramandato.
Infatti al lettore si presentano due documenti diversi con una radice comune: il giglio come capochiave delle catene messe a contenere i muri di antichi palazzi aquilani per la sicurezza da una «terra ballerina».

Le vicende: la storia narrata, la storia documentata.
“Esattamente il 2 febbraio 1703, il giorno della Purificazione, la città venne in gran parte falciata […]. Nondimeno è rimasto il giglio del terremoto. […]. Vi stanno da due secoli e mezzo, a testimonianza di gratitudine per essere stati salvati dal disastro. […]. Fiore di devozione. Per grazia ricevuta […].”
Così la scrittrice nel 1974, testimoniando, forse, con un passa parola che si perde nei secoli, il posizionamento del giglio come segno di ringraziamento dei superstiti, dedicato alla Madonna nel giorno della Purificazione secondo il rito ebraico, 40 giorni dopo la nascita di Gesù, lo stesso giorno del terremoto distruttivo.
“I gigli citati sono una pregevolissima decorazione in metallo dei capochiave di catene poste a salvaguardia sismica degli edifici storici […] di sicura edificazione rinascimentale. […]. I gigli sono lì non da tre secoli, ma da cinque […] realizzato (i) contemporaneamente alla messa in opera della catena […], capochiavi metallici […] (che) non si limitano al tipo fornito di decorazioni floreali, se ne rinvengono altre con forme decorative diverse. […], riferibile (i) ai secoli XV – XVI.”
Quindi, secondo lo studio di D’Antonio, «fiori del terremoto» posti in palazzi del ‘400 come decorazione di un simbolo di sicurezza per i sismi di epoche risalenti a meno di duecento anni dalla costruzione della città dell’Aquila.
Due realtà decisamente dicotomiche in cui la documentale sembra cancellare le emozioni di una narrazione.
Ma non è così.

Molto spesso, nella narrativa d’autore, ricorrono ricordi ripresi dal proprio passato in cui l’alterazione della verità diviene un fatto frequente e s’innesta nella realtà documentale. È una reinterpretazione del vissuto personale, un intimo racchiuso in tanti pezzetti di memoria. Esempio classico è la narrativa di guerra o quella che attinge alla propria infanzia dove il personale s’inserisce in una dimensione collettiva e diviene più vero della verità.
Un saggio dello scrittore Paolo Di Paolo, ricercatore all’Università Roma III, pubblicato sul numero de «l’Espresso» del 14 gennaio dimostra attraverso una traversata in molti romanzi come «la storia fa bene al romanzo. […]. Se la storiografia cerca chiarezza, trasparenza, si affida alla fonte verificata, la letteratura può raccogliere dicerie, fraintendimenti, fondarsi su briciole di memoria raccattate nelle stanze di casa o per la strada, sulle bugie, sulle contraddizioni. […]. Questa realtà alterata può rivelarci più di molti assunti storiografici, può scaldare per una via emotiva il rigore documentario, spingerci a reinterpretare il passato da angolazioni insolite: […]».
Così Laudomia: registra una realtà e la reinterpreta con l’anima, non toglie nulla alla verità e invia un messaggio duraturo nel tempo.


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