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Dietro al furto della reliquia, la fragilità di tanti giovani a rischio e il disagio sociale

31 gennaio 2014 @ 20:06 Categoria: Società

[1](di Flavio Colacito -psicopedagogista).Adesso si può tirare un sospiro di sollievo, sapendo che la reliquia di Papa Wojtila è finalmente in mani sicure dopo le brillanti azioni investigative di carabinieri e polizia, essendo stata recuperata in larga parte, anche se mancano dei frammenti, forse rintracciabili con l’ausilio dei cani molecolari quando miglioreranno le condizioni climatiche attualmente sfavorevoli. Speriamo. Questo episodio, tuttavia, non deve passare senza qualche riflessione, spunti che trovano origine nelle parole del vescovo ausiliare dell’Aquila, monsignor Giovanni D’Ercole, quando sottolinea la necessità di “perdonare gli autori del furto e ad approfondire il grande disagio sociale che c’è nell’aquilano a partire da questa vicenda”, ma anche da quelle altrettanto significative del sostituto procuratore della Repubblica, il dott. David Mancini, ovvero che “è un insegnamento che ci viene – sottolinea -dietro la vicenda giudiziaria si nasconde il grandissimo disagio sociale di questi tre ragazzi che credevano di rubare qualcosa di grande valore economico e solo dopo hanno scoperto che cosa avessero preso”. Infatti sarebbe riduttivo condannare semplicemente quei tre giovani, mentre sarà necessario lavorare sulle loro coscienze cercando di comprendere il reale motivo che li avrebbe spinti a compiere un furto particolare, sacrilego, tanto da suscitare l’attenzione pubblica nazionale e un servizio, proprio ieri sera sull’emittente televisiva “Italia 1”, della trasmissione cult “Mistero”, dopo le voci della possibile pista satanica. La comunità aquilana ha vissuto con apprensione la storia del furto, un atto avvenuto all’interno della chiesetta di S. Pietro della Ienca, una zona amatissima da Papa Giovanni Paolo II, forse perché la cornice del Gran Sasso ricordava i luoghi della sua gioventù, un posto frequentato fino alla fine, anche quando le sofferenze fisiche iniziavano ad affacciarsi prepotentemente. Forse i giovani autori del furto non lo sapevano, non si sono resi conto della gravità simbolica della bravata, non hanno riflettuto, accecati dall’idea di compiere qualcosa che avrebbero potuto fruttare dei guadagni attraverso la ricettazione degli oggetti legati al culto, finendo per cadere nella trappola dell’eco mediatico nel momento in cui si sono resi conto di averla combinata grossa, crollando psicologicamente . Questo ci conferma come i giovani spesso siano completamente disorientati di fronte al concetto di “valore”, dando più attenzione all’utilizzo dell’oggetto in quanto tale, correndo il rischio di infrangere la legge senza sapere nemmeno per cosa realmente lo stiano facendo, addirittura gettando la reliquia come fosse un semplice pezzo di stoffa, non chiedendosi il motivo che avrebbe condotto qualcuno a custodirla all’interno di una teca situata all’interno di un santuario. Questi ragazzi ora dovranno fare i conti con la giustizia, essendo stati denunciati per furto, ma forse d’ora in poi dovranno essere educati a pensare e a sentirsi parti attive della società, specialmente in un contesto cittadino dove altri ragazzi deboli rischiano di cadere vittime di atti irresponsabili, alimentando le fila della microcriminalità. A L’Aquila episodi simili possono accadere con estrema facilità, trovando un terreno fertile nella disgregazione sociale alimentata dall’alienazione tipica delle case – dormitorio sorte all’indomani del sisma, nello squallore delle periferie degradate e senza servizi, alimentando legami instabili, occasionali, superficiali, elementi che fanno parte di quell’identità mancante o messa a dura prova dalle vicende personali di quei soggetti con maggiori problemi, magari di droga o alcolismo. Eppure, a parte qualche nota, non si è ancora capito che questa benedetta ricostruzione deve parallelamente prevedere quella sociale, destinando fondi a tutte le iniziative utili in tal senso, ai progetti dove prevalga il benessere psicologico dell’individuo. Quei ragazzi, in fondo, sono solo l’anello più debole di un mondo giovanile dove il senso di irresponsabilità viene alimentato dalla mancanza di validi punti di riferimento, a cominciare dalla scuola che non aiuta a pensare e a diventare cittadini consapevoli, dal fallimento di alcune famiglie dove manca il dialogo e ognuno vive come fosse un corpo estraneo, tanto da far diventare evanescente la dimensione affettiva ed educativa. Correre ai ripari si può e non è mai troppo tardi se siamo in grado di vedere con gli occhi giusti, se riusciamo a ricordare l’insegnamento di Papa Giovanni Paolo II che i giovani li amava.


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