I Nove Martiri aquilani


L’Aquila – Abbiamo tratto dalla prima ricerca storia sui Nove Martiri, elaborata e scritta molti anni orsono dal prof. Corrado Colacito, ripubblicata qualche anno fa dall’editrice Textus allora curata da Carlo De Matteis, questo brano, utile anche come chiarimento nella polemica sul ruolo del Cardinale Confalonieri:
“Sventurata la terra che ha bisogno d’eroi” (Bertolt Brecht) –
Appena dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione della nostra zona da parte delle truppe tedesche, cominciarono ad avvertirsi aneliti di libertà in molti giovani, che si organizzarono in piccoli gruppi allo scopo di sottrarsi ai rastrellamenti non semplicemente nascondendosi, ma mettendo in atto azioni contrarie ai reparti nemici.
Uno di questi gruppi, composta da una quarantina di giovani aquilani, si procurò delle armi e lasciò la città con l’intento, così pare, di raggiungere i militari italiani arroccatisi a Bosco Martese, nel Teramano. Si trattava di giovani coraggiosi, euforici, forse anche ingenuamente convinti di poter affrontare la guerra da soli, sottovalutando le potenzialità del ben collaudato contingente tedesco.
Si è sempre sostenuto che fu il colonnello Gaetano D’Inzillo a spingere il figlio Bruno a prendere le armi con i suoi compagni e ad andare alla macchia. Altri sostengono tuttavia che lo stesso colonnello fu spinto dal figlio, infervoratosi alla lotta anti-tedesca, a procurare le armi per lui e per il gruppo dei suoi amici.
Sta di fatto, che a differenza di tanti coetanei che preferirono solo nascondersi, quei ragazzi andarono in montagna con le armi in mano.
Testimoni che li videro transitare per via delle Spighe verso la Fontana Luminosa, affermano che avevano volti spaventati, e che alcuni piangevano, e le loro mamme con loro. E riferiscono anche che gli abitanti del quartiere li protessero, stando di guardia nei dintorni per segnalare eventuali presenze di fascisti o tedeschi. Non erano rari, infatti, episodi di delazioni, anche fra intimi o amici, con conseguenze tragiche per mano tedesca, il che imponeva di essere veramente cauti nell’agire o anche nell’esprimere le proprie opinioni.
Gli abitanti di Collebrincioni, un piccolo centro alle falde del Gran Sasso, ricordano l’arrivo di questi giovani che si mostravano euforici ed esaltati forse solo per darsi reciprocamente coraggio.
Purtroppo, alcuni irriducibili sostenitori del vecchio regime avvisarono i tedeschi della loro presenza e la sera stessa della loro partenza, il 22 settembre, li guidarono in paese fino al loro rifugio, nel bosco sopra al cimitero, nascondendosi in un casolare sino al termine dell’operazione di rastrellamento.
Esperti paracadutisti tedeschi circondarono la zona con un serrato cordone di uomini; in questo modo poterono letteralmente intrappolare il gruppo di giovani, insieme con alcuni prigionieri inglesi fuggiti in precedenza dal campo delle Casermette.
Un certo numero di loro venne tuttavia “graziato” poiché non oppose resistenza né imbracciava armi all’atto della cattura : costoro furono infatti condotti presso il Grande Albergo dell’Aquila, dove non ebbero da sopportare nulla più di un ammonimento verbale.
Ma altri nove, presi con le armi in pugno, la mattina del 23 settembre vennero invece subito condotti presso le Casermette dell’Aquila, costretti a scavare due grandi fosse e qui spietatamente fucilati.
A nulla valsero le suppliche dei familiari e neanche l’intervento dell’arcivescovo dell’Aquila Carlo Confalonieri, divenuto poi cardinale, riuscì a salvare quelle giovani vite.
Inoltre, poiché i comandi preferirono non divulgare la notizia dell’avvenuta esecuzione, in città si ignorò a lungo la sorte toccata ai giovani : alcuni sospettavano che fossero stati fucilati, altri invece pensavano che fossero stati trasferiti in Germania. Quasi quotidianamente vi erano persone che raccontavano di aver visto alcuni dei ragazzi da qualche parte, o addirittura che qualcuno di essi avesse scritto una cartolina a casa; ma per lo più erano notizie fatte circolare dai fascisti repubblichini per nascondere la realtà dei fatti e non suscitare lo sdegno dei cittadini.
Si dette credito a quelle voci rassicuranti perché nessuno voleva credere alla morte di quei ragazzi, e infatti quando dopo la Liberazione fu scoperta la verità, il dolore fu lacerante, un dolore che si conserva ancora nella memoria della città e che il tempo ha solo in parte lenito. Per una nostra intervistata “i nomi dei giovani e il loro ricordo sono cose sacre”.
Rinvenute il 13 giugno ’44 preso le Casermette, le salme dei Nove Martiri furono ricomposte presso la scuola elementare “De Amicis”, dove ricevettero l’omaggio di un vero pellegrinaggio cittadino, svoltosi tra un aspro odore di creolina.
Al passaggio del sobrio funerale, tutta la città fu in ginocchio dinanzi alle bare portate a spalla dai coetanei dei caduti, mentre mesti canti venivano intonati dalla ricostruita centuria corale. Si trattò – sottolinea Alessandro Clementi – di un momento di commozione intensissima, di un prezioso momento unitario vissuto da una città normalmente ritenuta apatica e cinica”.
(L’immagine è tratta da Google)


25 Aprile 2010

Categoria : Storia & Cultura
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