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D’Amico, d’Annunzio e il Parrozzo

26 settembre 2010 @ 16:39 Categoria: Cultura

[1]Pescara – (di Enrico Di Carlo) – Non fu Gabriele d’Annunzio a dare il nome al dolce Parrozzo, come comunemente si crede, bensì il pasticciere pescarese Luigi D’Amico che lo aveva creato nel settembre del 1926. Nella lettera che lo stesso D’Amico aveva inviato al poeta, a Gardone, il 27 settembre, è scritto: “Illustre Maestro. Questo Parrozzo – il Pan rozzo d’Abruzzo – vi viene da me offerto con un piccolo nome legato alla vostra e alla mia giovinezza”.
Per la realizzazione del Parrozzo, D’Amico si era ispirato al pane rozzo dei contadini abruzzesi fatto con il granturco, di forma semisferica e cotto nel forno a legna. Facendo rimanere la forma inalterata, aveva riprodotto il giallo del granturco con quello delle uova e aveva adoperato una copertura di finissimo cioccolato per imitare lo scuro delle bruciacchiature caratteristiche della cottura nel forno a legna.
Il 9 novembre, su carta intestata “Io ho quel che ho donato”, il Comandante rispose con un celebre sonetto dialettale che termina con i versi: “Benedette D’Amiche e San Ciatté! / O Ddie, quanne m’attacche a lu parròzze, / ogne matine, pe’ lu cannaròzze / passa la sise de l’Abruzzo me’”.
Qualche tempo dopo, Luigi D’Amico mise in commercio un altro dolce con il nome di “Cassata Aterno”: nome che, a suo dire, era poco promozionale. Pensò, così, di rivolgersi allo scrittore, mandandogli a fine novembre il prodotto, perché lo assaggiasse e, soprattutto, gli attribuisse una più confacente denominazione.
Il 2 dicembre, su carta intestata “Ardisco non Ordisco”, d’Annunzio ringraziò per avergli fatto giungere i dolci «’n che lu nome (cioè il Parrozzo) e senza nome». Ma poiché il pacco era arrivato al Vittoriale durante uno dei suoi soliti lunghi digiuni, egli promise a D’Amico che, non appena avesse ripreso a mangiare, avrebbe provato il nuovo dolce e gli avrebbe attribuito il nome.
Così fu. Il Principe di Montenevoso compose, per l’occasione, una spiritosa quartina dialettale per la quale, molto probabilmente, aveva trovato ispirazione dal miele, tra i principali ingredienti della specialità: “Ca tu le vuo’ chiamà la Melitusse / ca tu le vuo’ chiamà lu Melicrò / a vocca piena e senz’alzà lu musse / “Chiamale” – i’ diche – “coma cazze vuo’!”
Questi versi, il cui originale è conservato negli archivi della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, a Pescara non arrivarono mai.
Il dolce, dunque, era ancora senza nome. Ma ciò si rivelò tutt’altro che dannoso per la sua fortuna. Infatti, l’espressione usata dallo scrittore, “senza nome”, divenne ben presto la nuova denominazione.


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