Ancora un caduto italiano nella guerra psicologica statunitense


(di Carlo Di Stanislao) – Un altro soldato italiano è stato ucciso ieri in Afganistan, nell’esplosione del veicolo blindato Lince su cui viaggiava, saltato su un ordigno improvvisato, che ha prodotto anche il ferimento di altri quattro militari del quinto Reggimento Alpini. L’episodio di ieri è avvenuto a Shindadnell’Ovest del Paese, verso le 12 e 45, mentre il convoglio italiano rientrava dopo un’operazione di assistenza medica alla popolazione locale. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia, ha espresso i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari del caduto e un affettuoso augurio ai militari feriti, mentre il premier Silvio Berlusconi ha detto: “E’ un tormento, un calvario e tutte le volte ci si chiede se questo sacrificio che impegna il parlamento con voto unanime e tutto il popolo italiano ad essere lì in un paese ancora medioevale sia uno sforzo che andrà in porto”. Chi ha attaccato senza mezzi termini la permanenza dell’Italia in Afganistan è Antonio di Pietro, che ieri ha dichiarato: “Denunciamo in modo forte e chiaro che la responsabilità politica di queste morti ricade sul governo e su tutti coloro che in Parlamento hanno votato per il proseguimento della missione”. Il leader dell’Idv ha anche ricordato che il sì a proseguire la missione “è stato un voto trasversale e, proprio per questo, ancora più inaccettabile”. “Siamo vicini alle famiglie del militare caduto in Afghanistan, dei quattro feriti e a tutti i commilitoni impegnati su quei territori. Esprimiamo profondo dolore e commozione per questa ennesima tragedia annunciata. Smettiamola – ha ribadito Di Pietro – e usciamo dal luogo comune di chi intende coprire la propria responsabilità in nome della patria e della bandiera”. L’utilizzo degli ordigni improvvisati, nonostante gli importanti progressi svolti dagli uomini della missione Nato per contrastarne la minaccia, rappresenta una delle modalità di azione tra quelle utilizzate dagli “insurgent” e, nel 30% dei casi, colpisce vittime civili. Le forze di sicurezza Isaf svolgono una continua attività per prevenire questo genere di minaccia al fine di migliorare le condizioni di sicurezza e garantire uno sviluppo sociale ed economico della regione. Di recente il ricercatore e giornalista freelance Giuliano Battiston, ha condotto un lavoro sul campo di tre mesi in otto delle 34 province afgane (Bamiyan, Balkh, Faryab, Ghor, Herat, Kabul, Kandahar, Nangarhar) e ha realizzato quasi cento interviste con gli esponenti della società civile. “Quello che ne è risultato è che in Afghanistan esiste una società civile sempre più consapevole del proprio ruolo e di quello degli altri attori di cui si riconoscono i limiti”, ha dichiarato. Il concetto di società civile è da anni al centro del dibattito sulle relazioni internazionali e la ricerca, la prima di questo tipo presentata in Italia, è lo strumento di una conoscenza della realtà del Paese asiatico che la rete Afgana approfondirà con una conferenza a Kabul a fine marzo e una conferenza internazionale a Roma a fine maggio. “È fondamentale trovare interlocutori sul terreno che ci diano indicazioni su come realizzare la civilizzazione dell’Afghanistan”, ha detto Elisabetta Belloni, direttore generale della Cooperazione allo Sviluppo, alla conferenza di presentazione del rapporto. Nonostante le precarie condizioni di sicurezza, la disillusione per la mancata ricostruzione e per lo scarso coinvolgimento del governo e della comunità internazionale, “non c’è città in cui sono stato dove non ci sono studenti che hanno dato vita a gruppi di poesia e associazioni culturali, donne che si riuniscono e che discutono”, ha raccontato Battiston. Ma la comunità internazionale, che sin dal trattato di Bonn ha accordato alla società civile un ruolo centrale nel processo di pacificazione, in realtà ha condotto una politica miope che ha sostenuto principalmente le organizzazioni formalmente istituite e capaci di risposte immediate. “In questo modo si è configurato un particolare modello di relazione tra Stato e società civile, che accorda priorità alle organizzazioni che forniscono servizi -di emergenza e di assistenza- quasi trascurando quelle che promuovono discussione pubblica, mobilitazione e partecipazione sociale o che chiedono trasparenza e responsabilità da parte del potere politico”, si legge nella presentazione. Negli anni quindi la società civile è stata depoliticizzata ed è stata sminuita la voce dei gruppi culturali, religiosi e dei consigli tradizionali che sono invece un collante fondamentale della società e strumenti utili a creare un vero dialogo. Conseguenze dirette di questa miopia internazionale sono quelle che Battiston ha chiamato “promiscuità tra civile e militare” e “politicizzazione degli aiuti”, laddove invece dalla società emerge il desiderio di “separare le cose, chiarire i soggetti e i ruoli”. Dal materiale raccolto nel corso delle interviste prendono forma alcune richieste della società civile alla comunità internazionale e al governo afgano. Michael Hastings è un giornalista di Rolling Stone, giovane e brillante: ha trent’anni e quando ne aveva venticinque era già inviato di Newsweek in Iraq. Durante i suoi ultimi mesi in Iraq, la sua fidanzata – Andi Parhamovich, anche lei giornalista – decise di raggiungerlo, per passare più tempo con lui. Finì che lei morì poco dopo il suo arrivo, vittima di un attentato, e Hastings raccontò la loro storia in un libro uscito qualche mese dopo. Qualche mese fa Hastings scrisse, sempre su Rolling Stone, un articolo sul generale statunitense Stanley McChrystal che costrinse il militare a dare le dimissioni dal suo fondamentale incarico: capo delle forze armate americane in Afghanistan. Lo scorso 25 febbraio, sulla stessa rivista per cui lavora, Hastings ha raccontato un’altra storia che ha a che fare con l’esercito ed in cui si racconta, con dovizie di particolari, che il generale William Caldwell avrebbe ordinato a un gruppo di soldati specializzati in “operazioni psicologiche” di manipolare i senatori americani in visita in Afghanistan, per convincerli a inviare più truppe e nuovi fondi per la guerra. Quando un ufficiale ha cercato di opporsi all’operazione, è stata aperta contro di lui un’indagine militare. I fatti risalirebbero all’anno scorso, quando una cellula militare specializzata nelle cosiddette “operazioni psicologiche” ha ricevuto svariate volte il compito di prendere di mira senatori e altre persone di rilievo che si incontravano con Caldwell. A un certo punto il gruppo si è rifiutato di eseguire l’ordine sostenendo che violava le leggi degli Stati Uniti, che tra le altre cose proibiscono l’uso di propaganda contro cittadini americani. Da quel momento alcuni suoi membri sono stati soggetti a una campagna di rappresaglia. Secondo l’articolo, con intervista al capo del gruppo, di niome Holmes, tra le persone prese di mira ci sarebbero anche i senatori John McCain e Joe Lieberman, l’ambasciatore ceco in Afghanistan, il ministro degli interni tedesco e altri influenti esperti e analisti. Secondo il ministero della Difesa le cosiddette psy-ops – che usano tattiche psicologiche per influenzare le emozioni e i comportamenti – possono essere usate solo “su stranieri ostili”: le leggi federali proibiscono ai soldati di usare queste tattiche contro gli americani. Holmes e quattro soldati ai suoi ordini sono arrivati in Afghanistan nel novembre 2009, con il compito di valutare gli effetti della propaganda statunitense sui talebani e la popolazione afgana locale. Dopo un mese Caldwell gli ordinò di concentrarsi sugli americani in visita in Afghanistan. All’inizio gli ordini venivano impartiti verbalmente. Holmes racconta di aver incontrato Caldwell una dozzina di volte per discutere l’operazione: voleva convincere il generale a lasciare che i suoi uomini svolgessero i compiti normalmente richiesti e che non dovessero spingersi oltre. La scorsa settimana il nostro ministro La Russa, intervenendo sulle rivelazioni di Wikileaks sull’Italia e i rapporti con l’amministrazione statunitense, aveva detto: “sono tutte cose scontate, prevedibili” messe in fila da chi ha gestito il sito “per uno scopo di denigrazione o di manipolazione che però mi sembra avviarsi verso il fallimento”: è quanto ha detto il ministro della Difesa Ignazio La Russa in un’intervista al quotidiano la Repubblica. Secondo il ministro “ci vorrebbe un Wikileaks italiano, una lettura anche delle discussioni al nostro interno, all’interno del nostro stato maggiore”. In ogni caso, concludeva La Russa, “avendo stabilizzato un rapporto concreto con il ministro Gates e con il generale Petraeus, siamo in grado di chiedere che le stesse forze americane vengano schierate in un modo o nell’altro a seconda delle nostre esigenze, e questo Wikileaks non lo racconta”. Con quella di ieri sale a 37 il numero dei caduti italiani in Afganistan, un tributo davvero molto alto soprattutto per chi, come noi, è convinto che la democrazia non sia mai da imporre. Come scrive su Agora Vox Claudio Paudice, l’espressione con cui si suole definire le missioni in Iraq o in Afghanistan: “guerre per la pace”, senza bisogno di immani dell’intelletto, mostra la sua lampante contraddittorietà, ancor più drammatica in un’Italia che sembra allontanarsi sempre più dalla democrazia di cui dice essere portabandiera, per divenire sempre “meglio”, un paese dominato dalle caste e dalle lobbies, dalla partitocrazia e dalla corruzione, dalla mafia e dalla politica, dui cui sembra essere aedo e cantore, tanto imbarazzante quanto sudato, Giuliano Ferrara che, in attesa del suo intervento su Rai1, dal Teatro dal Verme, blatera ed abbaia: “Berlusconi non è Breznev. Vogliamo il vero Berlusconi, quello del ’94, il Berlusconi libertario!”. L’ultima trovata dei nostri politici la si deve al Ministro Frattini che ha sentenziato: “La democrazia non va esportata”. E allora per cosa hanno perso la vita i soldati italiani in missione di pace? Tolti i pochi che si sono arruolati solo per il loro tornaconto economico o perché non avevano altre possibilità lavorative, come si giustifica la morte di quei militari e di quelli che verranno? La democrazia non era il dono dell’Occidente alla popolazione afghana? E cosa resta ora, oltre l’orrore e la morte?


28 Febbraio 2011

Categoria : Cronaca
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