Uscimmo fuggendo tra terrore e polvere, e L’Aquila non c’era più


L’Aquila, o quel che ne rimane – (di Gianfranco Colacito) – PENSIERI SU 729 GIORNI – Fuggire respirando polvere, puzza di gas, sangue, e non trovare più la città. Solo una folla brancolante nel buio di gente terrificata, lamenti, pianti, richiami a voce roca. Auto bloccate, luci a singhiozzo, condutture d’acqua spezzate, soffi grevi di metano, ovunque macerie, volti intirizziti di persone chiuse nelle auto, guaiti di cani, urla di gente straziata sotto le macerie di un vicino palazzo imploso in un secondo. E scosse continue, anche forti, incessanti. Non si cancella una cosa così. Quel pensiero ci inseguirà per sempre, ma almeno noi ci siamo. La maggior parte degli abitanti di quel quartiere sono altrove, persi di vista, emigrati, morti.

LE SCOSSE – Le scosse del ricorrente terremoto che, storicamente, nel tempo devasta la terra aquilana, erano cominciate nel dicembre 2008. Trascurate, come da chi nasconde la testa nella sabbia. Sempre più frequenti fino al marzo 2009. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa. Nessuno fece assolutamente nulla. La protezione civile non esisteva. Non c’erano aree di fuga, zone attrezzate di raccolta. Come non ci sono ora. Non c’erano mai state, nonostante studi e ricerche che dicevano: attenti, c’è aria e rischio di terremoto. Lo dice la storia. Lo dicono gli studi, che le istituzioni avevano sottovalutato e insabbiato. Mezza città era a rischio crollo. Su questo, è pronta una denuncia penale che chiamerà a rispondere molti. E’ in arrivo. Sarà un altro capitolo doloroso, forse straziante.

MORTI – I morti sono 309, ma chi sa quanti altri se ne sono andati a causa del trauma profondo, delle malattie sopravvenute. Ci inchiniamo di fronte alle bare di tutti. Di fronte ad una città che la politica dichiara viva, sciorinando i costi (14 miliardi, 1,4 già erogati, 11.000 cantieri, e così via), ma che ha qualcosa di irrimediabilmente perduto: se stessa. Uscimmo e non trovammo più L’Aquila. Eravamo centomila orfani del proprio passato, vite spezzate alle 3 e 32.

OSCURI SEGNI IGNORATI – Marzo 2009, scosse forti. Nessun allarme. Luci sismiche, rombi nel sottosuolo, odori di zolfo e altri misteriosi segni premonitori, che la scienza guarda con sospetto ma comincia a soppesare. Ci furono, giurano in tanti. Li ignorammo. Forse volevamo esorcizzare la paura, e fummo ciechi? O forse si fantasticò. O forse, ancora, di terremoti non ne sappiamo a sufficienza. Neppure in Giappone.

COMUNITA’ FRANTUMATA – Una comunità cancellata, asportata dal contesto sociale italiano, che a livello di governo reagisce presto e coraggiosamente. Migliaia di fuga, migliaia nelle tendopoli, migliaia sulla costa. Oggi, dopo due anni, ancora 37.000 assistiti. Migliaia in map e case provvisorie, che spesso non funzionano. Autonome sistemazioni per milioni di euro. Miliardi, si dice, pronti per la ricostruzione pesante, che non esiste, al momento. Assolutamente non esiste. Nessun monumento rimesso in piedi, tranne le 99 Cannelle. Nessuna vera progettazione urbana.

NEPPURE UN’IDEA – Forse neppure un’idea complessiva valida del come e dove riedificare una città che era preziosa, che forse gli aquilani non hanno amato abbastanza. E’ tardi per i rimorsi. Riedificare un pezzo di centro, il corso, cardo e documano. Funzionerà davvero? Un cataclisma l’economia, commercio allo sbando, cassa integrazione. Molti, tanti, che vanno via. Bambini che hanno dimenticato il loro breve passato aquilano e non lo riavranno più, anzi neppure lo vogliono più rammentare. La comunità si sfilaccia, si estingue, bazzica psichiatri e ingoia pillole, ansiolitici, sonniferi. Il tessuto sociale si guasta e peggiora. In tutti, in fondo al cuore, c’è un trauma profondo come le faglie sismiche, e altrettanto inquieto. Dove sarà il barbiere, il sarto, l’idraulico?

SISMOLOGI PER FORZA – Faglie: tutti hanno imparato a parlarne. Terremoto, scale sismiche, magnitudini, sciami che continuano e sembrano inesauribili. Faglia Paganica-Onna, ipocentro sotto l’area di Roio. La scossa devastante ebbe magnitudine locale 5,8, magnitudine momento 6,3: due misure per dire la stessa cosa, un inferno di energia sprigionato da una terra che lo ha fatto sempre, senza insegnare nulla agli sventurati che brulicano nei palazzi del potere, senza averne padronanza. Solo tornaconto, i più. L’Aquila ha sempre vissuto come una città non sismica,. Danzando sul Titanic battezzato orco. Velandosi il capo per il 1703, con la sola piccola rinuncia al carnevale. Pochi sapevano che le Anime Sante dell’omonima chiesa sono quelle dei morti del 1703, o che Campo di Fossa fu una discarica di cadaveri straziati, un macabro ossario di morti del sisma settecentesco.

COSTRUIRE BENE – Oggi si ripete fino all’ossessione: costruire bene è l’unica difesa. Per ora, tanto per non sbagliare, non si ri-costruisce nulla. Questo è il secondo anniversario di quel momento in cui perdemmo tutti un pezzo di vita, o tutta la vita. Tante bare di fronte alle quali chinarsi. 100.000 aquilani del centro e dei dintorni lo fanno, sentendo dentro di loro lo strazio di un irrevocabile commiato da ciò che sono stati, da chi sono stati, dal dove sono vissuti. Unica speranza, amara come succo di mandorle, è riflettere. Altre volte la città è risorta. Due, tre volte. Cento volte ha ricevuto la mazzata del terremoto (uno forte almeno ogni 40-50 anni, l’ultimo nel 1959, 5 Richter). Oggi proverà ad esserci di nuovo, frammentata in cento new town e desolanti prospettive periferiche. Ma nessuno dica che il peggio è passato. Il peggio è qui, ci abita dentro.

CHIESE E MISTERI – Tra le tante chiese, è rovinata al suolo anche quella più misteriosa: Collemaggio. Ha perso il cuore, nel centro del transetto. Dove un raggio di Sole trafiggeva il pavimento il 21 giugno, attraversando il rosone,. Dove gli esoteristi localizzavano il nucleo di energia vitale e rigeneratrice. Dove forse i Templari nascosero qualcosa. Il terremoto ha colpito lì, ferocemente, ha aperto il soffitto e fatto piovere – dopo secoli – la luce tra polvere, macerie, rovine e antiche pietre rotolate scheggiandosi. Un’ascesi, dicono alcuni, verso un nuovo futuro. Per ora, strazianti prospettive di distruzione impacchettata tra acciaio e legno.

IL GATTO – Ripensiamo al gatto seduto tra le patetiche macerie di quella che fu la casa di tolleranza, in via della Mezzaluna. Elegante, immobile, i grandi occhi fissati su un punto tra gli abiti rimasti appesi, comparsi tra finestre squarciate. Gli egizi dicevano che il gatto vede nel tempo, in misteriosi entanglement senza localismo. Chi sa cosa vedeva quel gatto solitario: un passato di altri terremoti, un futuro enigmatico. O forse solo un topino tra le rovine: saggezza al di là delle ansie umane?

TERRA AMARA – E’ crudele la terra aquilana, che non dà lavoro e sopravvivenza a tutti i suoi figli, che rifiuta innovazioni e svolte. Si chiude in se stessa, si lascia governare da una cattiva politica litigiosa e alimentata dal fiele. E’ aspra, scabra, sassosa e ricca di acque limpide. Ospita un leviatano che periodicamente si desta e squassa tutto. Qualcuno vi scorse il profilo di Gerusalemme, e, come Gerusalemme, soffre nei secoli, cade e risorge, custodisce tesori, non ama la loquacità e si beffa delle troppe parole dei potenti. Ora stringe i denti, la città, e non sa riposare dopo aver tanto sofferto. Come un malato febbrile e sudato, tormentato da ansie, allucinazioni, inquietudini tenaci come la gramigna. La strappi, tirando le adunche radici, ma è sempre lì, vitalità quasi aliena, tenacia cieca per esserci comunque.


06 Aprile 2011

Categoria : Cronaca
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