Recensione su “L’acqua del lago non è mai dolce”


di Gianfranco Giustizieri

Tante sottolineature, note e appunti sul mio taccuino durante la bella lettura del nuovo libro di Giulia Caminito: “L’acqua del lago non è mai dolce”, Giunti/Bompiani, Firenze – Milano, 2021.
Quando si parla di un romanzo l’attenzione si rivolge subito alla trama, ai personaggi, all’ambiente, all’epoca in cui è collocato per tirare fuori le capacità creative di chi scrive e possibilmente il suo essere. Poi la cura delle pagine come elaborazione comunicativa del proprio pensiero e quindi le tecniche attraverso la scelta delle parole, della punteggiatura, delle figure retoriche e quanto altro. Dalla perfetta integrazione di questi elementi nasce per il lettore il piacere di leggere e di affermare: “È un bel libro!”.
E ciò è successo nelle quasi trecento pagine di questo testo.
Incominciamo dalla narrazione. La stessa Caminito tiene a precisare. “[…] non è una biografia, né una autobiografia, né una autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per provare a farne una narrazione, il racconto degli anni in cui sono cresciuta, dei dolori che ho solo circumnavigato e di quelli che ho attraversato. […].”
Tutto ha inizio con Antonia, donna forte e determinata che mantiene da sola quattro figli e un marito disabile. Non piega mai la testa di fronte alle avversità ed è sempre in lotta contro le prevaricazioni altrui. La sua onestà, il senso quasi maniacale del dovere la conducono a pretese sempre più stringenti verso Gaia (conosceremo il nome della protagonista solo nelle ultime pagine), unica figlia femmina, con l’aspirazione di condurla ad un futuro diverso. La richiesta più pressante è di un continuo severo impegno nello studio in modo da forgiare una personalità capace di fronteggiare le insidie che li circondano. Gaia docilmente si sottomette ma nel suo Io un’altra Gaia sta crescendo, pronta a debordare con violenza inaspettata (come l’acqua quando tutto riempie).
Da questi presupposti nasce il romanzo che si snoda tra cambi di casa (Roma periferia, Roma corso Trieste, Anguillara, Roma corso Trieste) e socialità diverse. Gaia si narra in prima persona, si sdoppia tra docili sottomissioni e volute ribellioni: “Il ci mi comprende come una prigione, il noi in cui nessuno mi ha chiesto se voglio abitare … Quel noi che sta là non visto, mi comanda, per me crea castelli in aria e paludi”. Potersi isolare, desiderare una siepe simbolica per “poter creare alti confini, perimetrare ed escludere agli sguardi”.
Giorni fa leggevo la definizione originale della parola Chaos (il nostro caos) data dai primi poeti e pensatori greci, intesa come vuoto e da cui nasce in ogni umano il desiderio di dare ordine alle proprie esigenze e di colmare la voragine che è in noi. Il personaggio di Gaia sembra impersonare questa priorità: si sottomette docilmente alla volontà materna, disciplina con ostinazione la sua vita esteriore ma “l’altra Gaia” avverte il vuoto assoluto della sua condizione e tracima con violenza quando ogni soglia è superata, come il lago a cui accenneremo.
Altri personaggi, altre vite sono intorno alla nostra protagonista, appartengono alla sua famiglia, alle vere o false amiche, ai veri o pseudo amici, ai finti amori e l’accompagnano nell’arco di tempo che va dall’infanzia al postlaurea. Ognuno di loro meriterebbe una riflessione perché collocati dalla Caminito non come cornice al personaggio principale o tesserine poi abbandonate ma protagonisti a loro volta di storie e di realtà sociali. Carlotta, tra le prime amiche, con la sua voglia di vivere che poi decide come morire, Iris l’amica quotidiana da cui Gaia si allontana e che incomincia a non sentirsi bene fino a quando “attaccano i manifesti mortuari, sono diversi dagli altri, c’è una fotografia del suo viso e sotto data di nascita e data di morte, è morta da tre giorni e adesso il mondo me lo dice così, all’angolo dell’incrocio per Poggio dei Pini, su una superficie in ferro, , la sua morte sta sopra le altre morti, prenderà la pioggia, prenderà il freddo”. Poi ancora Agata dal sorriso lunare ed Elena l’ambigua traditrice. E i ragazzi, ognuno con la propria storia. Soprattutto Mariano, il fratello di Gaia, erede naturale, ci sembra, di Lupo il protagonista del precedente romanzo della Caminito. Di Lupo scrivemmo: “Animale d’istinto, ribelle fino alla vendetta, coerente in ogni scelta, appartiene a quel genere di uomini impossibili da contenere”, così Mariano che si scontra con la rigidità materna. Mariano che a diciassette anni parte per Genova per la manifestazione contro i G8 ed Antonia va a riprenderselo e lo porta a vivere ad Ostia con la nonna, quasi a ripudiarlo come figlio; che non vuole più saperne della famiglia ma rimane vicino a Gaia; che fa parte di un gruppo anarchico: “Sono entrato in un gruppo anarchico, gli anarchici non votano, esistono altri modi per fare politica”; che non vuole andare a votare perché la sinistra non esiste più, neppure rappresentata da Rifondazione; che abbatte la porta d’ingresso di Via Trieste con spranghe e piede di porco per far rientrare abusivamente la famiglia.
Poi c’è Anguillara e il suo lago: il lago di Bracciano con le sue leggende e le sue storie. Dapprima un vulcano vuoto e poi riempito dall’acqua nel corso del tempo ma anche il lago metaforico di Gaia che raccoglie le paure e le sfide per sedimentarle in nuovi percorsi. Quel lago dove “Io sono stata un cigno, mi hanno portato da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicinava con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore”; quel lago dove si era sentita “… un impasto lievitato … gonfia e tronfia dei miei successi”, ma … quando il lago sarà svuotato, smascheremo le leggende, le menzogne, i racconti … e allora … al centro del petto s’è aperto un cratere, dove una volta era stato un vulcano”. Un cratere da riempire.
Direi un lungo viaggio metaforico in cui s’incrociano frustrazioni e poche speranze, umiliazioni e vendette, e tanto altro ancora nella convinzione che “L’acqua del lago non è mai dolce”.
Infine la scrittura. Una scrittura agile, essenziale, aggressiva, tre aggettivi che fotografano senza più nulla aggiungere. Una narrazione che la penna conduce con sapienza, introducendo varianti per l’eliminazione di formule classiche come nella costruzione del discorso diretto.
«Un bel libro!» ed è detto tutto.

Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo La Grande A (Giunti 2016, Premio Bagutta opera prima, Premio Berto e Premio Brancati giovani), seguito nel 2019 da Un giorno verrà (Bompiani, Premio Fiesole Under 40).


01 Febbraio 2021

Categoria : Recensioni Libri
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