Monicelli ci ha lasciato, con altre riflessioni


(di Carlo Di Stanislao) – Ha preferito una fine rapida ad una lunga, straziante agonia e così si è gettato ieri sera dalla finestra della sua camera, dal quinto piano dell’Ospedale S. Giovanni di Roma, dove era ricoverato per un cancro prostatico. Come suo padre Tommaso, scrittore e giornalista, suicidatosi nel ’46, Mario Monicelli ha deciso che non valeva più la pena di vivere, dopo un’esistenza piena, durata 95 anni, con all’attivo 66 film, 80 sceneggiature e riconoscimenti di ogni tipo. L’emozione della sua morte fa irruzione nell’ultima puntata di “Vieni via con me”, con Saviano che rende commosso omaggio a lui, a Walter Tobagi e Enzo Biagi e agli studenti morti a L’Aquila durante il terremoto. ”La Casa dello Studente e’ il simbolo della condotta criminale che si e’ avuta per anni, quando si costruisce non rispettando le regole, si specula, solo per guadagnare o per avere consenso politico”, attacca Saviano, che racconta le ‘piccole’ storie dei giovani, Alessio, Davide, Michelone e tutti gli altri morti sotto le macerie. Quell’edificio ”era una bomba a orologeria”, accusa l’autore di Gomorra, mentre lo studio sembra tremare al rumore sordo e poi prepotente della scossa. E noi aquiliani ci emozioniamo e ricordiamo, con commozione, che Monicelli ci fu accanto da subito e da subito e senza riserve fu con il “Popolo delle Carriole”. Ha detto un medico che lo teneva in cura che Monicelli era stanco di vivere, ma forse sarebbe stato più giusto dire che era stanco di una vita senza prospettive. E non perché fosse vecchio e malato, ma perché costretto ad esistere in una Nazione sempre più imbarbarita, incivile, ingiusta e allo sfascio. Quella descritta da Milena Gabanelli su “Report”, con una collezione di 251 milioni di citazioni in giudizio; quella lasciata intendere dal procuratore antimafia Piero Grasso, che, in risposta all’elenco di Maroni, mette in fila ciò che occorrerebbe (e non c’è), per sconfiggere davvero la criminalità: “carceri adeguate, rispetto per i magistrati e non l’annunciata riforma della giustizia, una nuova legge che ”tenda a ridurre drasticamente il numero degli uffici giudiziari, a rendere piu’ agile e veloce il processo penale, a rivedere il sistema delle impugnazioni, ad eliminare quelle garanzie soltanto formali, che consentono strategie dilatorie, funzionali a scarcerazioni o prescrizioni”. Saviano confessa un sogno: ”La Rai mi ha telefonato per dirmi: perche’ non fate un altro programma?”. ”Stai tranquillo che non ci ricapita”, assicura Fazio, che le somme le tira gia’ in apertura di puntata, elencando le cose che ha imparato facendo la trasmissione: tra queste, che ”la Rai e’ ancora un pezzo importante di questo Paese, anche se spesso dimentica di esserlo”. Ed è fra tante smemoratezze ed inadempienze che Mario Monicelli se n’è andato, o meglio ha voluto andarsene da un mondo che non riconosceva, che, per dirla con Alessandra Vitali di Repubblica, si emoziona un attimo per la pipa di Pertini, di Bearzot e quella di Luciano Lama, per la barba di Tiziano Terzani, gli scarpini di Roberto Baggio, la tonaca di don Milani e il megafono di Fellini, gli occhi di Sofia Loren e la bicicletta di Marco Biagi; ma poi, in breve, dimentica tutto. Lui, il grande Mario, da questa Italia smemorata e superficiale ha voluto allontanarsi, in modo definitivo. Ritenuto a torto e per lunghi periodi un autore di puro consumo, Mario Monicelli ha dimostrato di essere un punto fermo nella storia del cinema italiano, tanto che Leonardo Pieraccioni, suo grande ammiratore, ha voluto rendergli omaggio come padre riconosciuto della commedia italiana e toscano DOC, affidandogli il ruolo della voce fuoricampo del nonno del protagonista nel suo film più fortunato: Il ciclone. Il successo arrivò con I soliti ignoti e si consolidò con L’armata Brancaleone e Amici miei, oscurando un poco prove più amare come La grande guerra, Un borghese piccolo piccolo, Il male oscuro, Parenti serpenti, Speriamo che sia femmina. Il suo ultimo film, girato a 91 anni e su set disagiatissimi, è del 2006: Le rose del deserto e vi racconta, ancora una volta, la sua visione antieroica dell’esercito italiano e della guerra. Toscanaccio di origine e di temperamento, figlio di Tommaso, critico teatrale e giornalista, dopo la laurea in storia e filosofia a Pisa Mario esordisce nel cinema nel 1932 con il corto, firmato insieme ad Alberto Mondadori, Cuore rivelatorem, ispirato a Poe. E a quel titolo e a quell’autore, si può dire, è sempre rimasto legato. Non c’è stata solo voglia di cinema nella sua vita. Come in Poe c’è molto di più del semplice piacere del racconto. Sempre in prima linea e controcorrente, nell’ultimo anno ha fatto sentire forte il suo sostegno alle proteste contro i tagli alla cultura e, come dicevamo, dalla parte degli aquilani, truffati da un governo capace solo di promesse. Qualche mese fa aveva incontrato gli studenti in rivolta alla Terza università della capitale, ma ieri ha compreso che non valeva più la pena combattere e tanto valeva arrendersi in un’Italia che, comunque, ha ciò che ,merita e si addormenta nel “letto di Procuste” che lei stessa si è preparato. Forse, se avesse ascoltato Saviano e Fo, se avesse immaginato, con un sorriso compiaciuto, come realizzare sullo schermo le “lottatrici nude”, macchina del fango di Corrado Guzzanti, avrebbe compreso che qualcosa da salvare in Italia c’è e questo piccolo frammento di Paese sentirà forte la sua mancanza. Ascoltando le citazione di Dario Fo da Macchiavelli ieri sera, avrebbe certo sorriso, con acido ghigno sardonico e toscano, soprattutto a quella che raccomanda al principe: “assumi sempre nel tuo governo cortigiani scaltri, in astuzia ed anche in truffalderia” e così concluso che, in fondo, il marcio in Italia esiste e da sei secoli almeno. Ma avrebbe anche detto, come forse ha fatto senza neanche bisogno di televisione, che, davvero, la cosa non lo riguardava più ed era davvero ora di cambiare forma e luogo. Il nove luglio dello scorso anno, è stato festeggiato dall’Ischia Film Festival, che ha proiettato il suo ultimo lavoro: un documentario intitolato “Accanto al Colosseo c’è Monti”, un lirico viaggio alla scoperta di uno dei posti più belli della capitale dove lui si è divertito a fare da “guida” al luogo e farsi seguire mentre fa la spesa, va dal barbiere o nei tipici negozietti della zona, dove viveva, da sempre. E’ il suo testamento: quello di un uomo alla ricerca di cose vere, in un mondo che lentamente si dissolve. Era ateo Monicelli ma, sono certo, anche nel “cielo vuoto” che si era immaginato, ci saranno molte anime buone, acide ed ironiche, pungenti ed insinuanti a fargli compagnia, una sorta di “quartiere Monti” delle nuvole, dove potrà progettare ed immaginare qualcosa che valga una nuova esistenza.


30 Novembre 2010

Categoria : Cultura
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