L’Aquila com’è, come sarà


L’Aquila – (di Olrando Antonini*) – Circa il tema dell’incontro odierno – “L’Aquila com’è, come sarà“ – mi riferirò esclusivamente all’Aquila antica contenuta entro le Mura Urbiche. Circa la sua ricostruzione, come già da me espresso in vari articoli e saggi, mi confermo nella convinzione che la formula impostasi all’indomani dell’ultimo sisma – “ricostruire L’Aquila dov’era e com’era” – ha bisogno di precisazioni. Giova notare, infatti, che gli Aquilani in ognuna delle precedenti ricostruzioni – quelle seguite ai sismi del 1315, 1349, 1461 e 1703 – rifecero l’Aquila ‘dov’era’, ma mai ‘com’era’. Col terremoto del 1703, addirittura ne cambiarono l’intera morfologia medioevale con la veste stilistica corrente in quel frangente storico.

Come si sa, oggi, al suo quinto sconvolgimento tellurico ed alla sua quinta ricostruzione, la nostra amata Aquila si ritrovava abbastanza compromessa nella facies urbanistica ed architettonica ereditata. Già le amputazioni provocate dai citati terremoti e le soluzioni sommarie della ricostruzione settecentesca dovute all’esaurimento dei fondi – torri campanarie mozzate e private delle cuspidi; esterni di edifici religiosi lasciati nel loro nudo informe tessuto murario, privo d’intonaci e riquadrature; risistemazioni di comodo che nulla avevano della semplice estetica, ad esempio in Santa Maria di Roio, in San Marciano, in Santa Giusta e in altre chiese due-trecentesche; svariati caratteristici elementi architettonici medioevali quali portici, loggie, bifore, ecc., accecati e sfigurati – avevano ridotto l’originario alto valore del suo pregevolissimo patrimonio edilizio sia civile che religioso. Il danno maggiore l’ha prodotto, nel Novecento, la disordinata urbanizzazione che è arrivata ad aggredire la città antica fin nel suo cuore fisico, sfigurandola con costruzioni arroganti del tutto fuori scala e forma rispetto a quella urbana d’ambito, e con la pretenziosa edilizia prolificata disordinatamente quale metastasi tumorale in più punti della cinta muraria trecentesca, investendola quasi a voler eliminarla come “elemento di ostacolo al proprio sviluppo” invece che come “importante risorsa per il proprio futuro”. Con tali balordi interventi si è insipientemente rovinata una delle realtà urbiche antiche più pregevoli del Centro Italia!

Stando così le cose non pare affatto che L’Aquila debba ricostruirsi “dov’era e com’era”, indiscriminatamente. Per quelli che amano davvero la città ed hanno il coraggio delle scelte, l’Aquila, se dev’essere ricostruita ‘dov’era’, sul che non si discute, non dovrebbe esserlo ‘com’era’ in ogni caso.

Essa dovrebbe esser recuperata, profittando dell’occasione più unica che rara delle distruzioni e danni causati dal sisma del 2009, oltre che nei suoi singoli monumenti, anche nel suo complesso: la città in quanto tale, cioè, comprendendo il tessuto edilizio connettivo e soprattutto, si badi bene, la trecentesca cinta muraria. È a quest’ultima, anzi, che nella generalità dei casi, e certamente all’Aquila, è affidato il compito di delineare, definendone i contorni, la fisionomia, il volto, nonché la visibilità panoramica di un centro storico. Il perimetro difensivo medioevale totalmente recuperato nelle sue mura, torri e Porte, emergenti da un verde anello di pomerio liberato dalle superfetazioni edilizie, ridarebbe la sua vera, compiuta identità ed unitarietà all’Aquila antica, estollendola sul colle, con la sua massa abitativa “in se compacta tota“, sopra la caotica urbanistica moderna. In un documento, che con me alcuni studiosi aquilani hanno chiesto di redigere all’arch. Maurizio D’Antonio ed hanno da poco presentato ai principali responsabili pubblici preposti alla ricostruzione, diciamo proprio questo. La cinta muraria, vi si legge, “splendidamente conservata fino a tempi recenti, era stata oggetto di una sistematica opera di devastazione, quasi a volerla cancellare del tutto. La si era resa di fatto inaccessibile per gran parte del suo sviluppo; case private si erano addossate ad essa senza alcun tipo di rispetto; le porte erano state quasi tutte chiuse e gli interventi della Soprintendenza di recupero e ripristino erano stati in parte vanificati da atti vandalici deturpanti”.

In particolare Porta Barete, che com’è noto era la principale della città, purtroppo “con il complesso di mura circostanti, fra cui una torre angolare, è stata oggetto di sventramento con la sistemazione ottocentesca di via Roma (cavalcavia) e di via XX Settembre, in una logica di apertura della città verso l’esterno, e di un successivo consistente rinterro sopra il quale si era costruito nel Novecento un gruppo di edifici. L’operazione di cancellazione della porta medievale principale della città è un episodio non certo frequente nella più generale storia dell’urbanistica, e denota ormai persa la sensibilità per la propria storia e i propri monumenti dovuta a particolari contingenti ragioni storiche”. Analoghe problematiche si pongono per il quartiere di S. Maria di Forfona o di Farfa, dove radicali modifiche ed urbanizzazione intensiva hanno vanificato l’originaria emergenza architettonica e paesaggistica della basilica di San Bernardino, e per la zona di Porta Leoni, nonché per il circuito difensivo in corrispondenza di Porta Bazzano, di Porta Napoli, di S.Andrea, della tragica Casa dello Studente.

È pertanto necessario che prefiggendosi di porre rimedio alle incompiutezze della ricostruzione settecentesca e soprattutto agli scempi urbanistici novecenteschi, di cui sopra, nel ricostruire l’Aquila si ponga mano ad una profonda riqualificazione volumetrica e formale dei caseggiati moderni che si è permesso deturpassero il tessuto abitativo storico ed aggredissero le citate Mura Urbiche, e poi si restituisca allo skyline edilizio cittadino la sagoma più dinamica che aveva anteriormente all’altro terremoto distruttore, quello del 2 febbraio 1703, rialzando le emergenze e le cuspidi allora crollate: insomma, la sagoma di città offerta stilizzata a stampa, dal Massonio, nel 1594, e prima ancora la veduta prospettica a volo d’uccello dipinta dal Cardone nel 1579 sul Gonfalone della Città.

Si tratta di una sfida ricostruttiva che fa davvero ‘tremare le vene e i polsi’, e la più disperata tra quelle sperimentate nella nostra storia. Disperata anzitutto per la difficoltà di ottenere la convergenza di tutte le parti in causa e di tutti gli interessi in gioco, politici ed amministrativi, pubblici e privati, civili ed ecclesiastici, tecnici e giuridici, culturali ed artistici, e che al momento, specialmente quelli politici, parrebbero inconciliabili. Disperata, inoltre, in quanto la ricostruzione di alcune parti di città – comprese ben tre delle 6 aree cosiddette ‘a breve’ – comporterà necessariamente le dette drastiche rivisitazioni volumetriche e morfologiche dell’edilizia novecentesca. Certamente agli amministratori di oggi, in una società che è più complessa rispetto alla settecentesca, si porranno maggiori difficoltà nell’esprimere, con i loro condizionanti interessi elettorali e particolari, determinazione e volontà politica per un’impresa epocale di tale portata, ed ai cittadini nell’accettarne i disagi e i ritardi conseguenti. Ma qui agli uni e agli altri gioverà ricordare, a loro paradigmatico esempio, quanto gli Aquilani del ‘200 seppero fare per la fondazione stessa della città: “Ficero la citade sollitici et uniti – scrisse il nostro Buccio di Ranallo – anni mille ducento cinquanta quatro giti”. Notate bene: “solliciti, et uniti”! Perché gli Aquilani del ventunesimo secolo per amore della città non saprebbero ripetere quello che i loro avi seppero fare nel ‘200? Voglia il cielo che un altro cronista-poeta aquilano, in futuro, possa scrivere di questa quinta ricostruzione: “Re-ficero la citade solliciti et uniti, anni duemila e unidici giti”.

Disperata soprattutto, la sfida ricostruttiva in parola, perché ricostruendo la città non soltanto con sistemi anti-sismici efficaci e con materiali eco-sostenibili, ma altresì sanando le indicate infelici soluzioni architettoniche, urbanistiche od anche solo estetiche del passato, suppone probabilmente costi maggiori e tempi esecutivi più lunghi. Ebbene, a freddo esame, tali eventuali costi aggiuntivi devono esser considerati un autentico investimento. Non si tratta infatti, la ricostruzione qui vagheggiata, di un’esigenza estetica o di uno sfizio archeologico-storico. Si tratta della conditio sine qua non della stessa ripresa economica della città e del futuro sviluppo del territorio.

È da almeno mezzo secolo che da parte degli esperti si ripete a tutti i livelli e in tutti i fori, istituzionali, politici, culturali, che la fondamentale ricchezza del nostro territorio è la vocazione turistica, grazie alle sue bellezze naturali e al suo peculiare patrimonio munumentale. Noi possiamo vivere soprattutto di turismo. Un centro storico, un monumento, una chiesa, rimessi nelle loro condizioni strutturali e formali ottimali, possono essere il futuro per le generazioni a venire. Di fatto, mai vi è stata volontà politica concreta a tradurre i proclami in programmi operativi efficaci, e del resto gli operatori economici aquilani sembra stiano solo adesso operando quel cambiamento di mentalità da un’economia di rendita ad una d’investimento, che li induca a volgere i loro interessi ed a spendere le proprie energie nell’unica possibile vera industria dell’Abruzzo montano: l’industria turistica, la sola adeguata alle caratteristiche locali, ecologicamente sicura, non suscettibile di delocalizzazione e che, se valorizzata e sviluppata come lo è in altre zone turistiche italiane di montagna ma come finora da noi non è stato fatto, costituirebbe la fonte di un indotto importante per l’occupazione, e dunque il vero volano della ripresa economica dell’intero Abruzzo interno.

Per questi motivi s’impone una ricostruzione “di qualità”. Occorre cioè che il nostro patrimonio monumentale, materia prima della nostra economia di base, nella quinta ricostruzione post-sismica della sua storia venga reso più ’competitivo’ e più ’appetibile’, in qualità formali, di quanto lo fosse prima del terremoto. Si rilegga ancora il nostro Buccio di Ranallo, che nella sua Cronica annota: “Gridaro tucti inseme: ’La cità fecciamo bella, Che nulla nello reame non se apparecchie ad ella!’. Una città, dunque, più ’bella’ possibile, che possegga una capacità d’attrazione, ed una ’competitività’ artistica, quindi anche turistica, rispetto alle altre città e regioni italiane, maggiore di quella anteriore al sisma, sicché unitamente alle ricchezze naturalistiche possa dare buona sostanza a detta industria. Se ci facessimo vincere emozionalmente dalle necessità immediate della ricostruzione, rischiamo, senza volerlo, di agire da egoisti imprevidenti, perché non ci renderemmo conto di star compromettendo il futuro occupazionale dei nostri figli e nipoti. Si tratta di una responsabilità storica che incombe sugli amministratori e i cittadini di oggi, della quale gli Aquilani del futuro chiederebbero rigoroso conto alla nostra generazione.

“Non è questa ovviamente – conchiude il documento del gruppo di studiosi aquilani, ed anch’io conchiudo – non è questa la sede per offrire le possibili soluzioni tecniche e giuridiche che dovranno essere valutate e individuate caso per caso nel rispetto della normativa e che certamente potranno essere trovate salvaguardando i molteplici interessi in gioco e ricercando il totale accordo fra i soggetti interessati”. In una mia nuova pubblicazione, che spero veda la luce in autunno, offrirò alcune delle possibili esemplificazioni in merito, in rapporto sia all’urbanistica sia, in particolare, all’architetturta sacra.

(*) Questa relazione di Mons. Orlando Antonini, Nunzio apostolico in Serbia, studioso d’architettura e storico, è stata letta il 28 marzo 2011 in un convegno tenuto all’Aquila presso la sede di Confindustria Abruzzo. La invio, con il consenso dell’Autore, per il suo notevole interesse scientifico e culturale e per il valore delle proposte avanzate per la ricostruzione. Di seguito aggiungo una breve annotazione biografica dell’Autore.
(Goffredo Palmerini)
Mons. Orlando Antonini, 66 anni, è nato a Villa Sant’Angelo. Ordinato sacerdote nel 1968, è stato parroco. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia, ha fatto importanti esperienze come Segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l’ordinazione episcopale e l’affidamento della Nunziatura apostolica in Zambia e Malawi, che ha retto fino al 2005, poi la Nunziatura apostolica in Paraguay, fino all’agosto 2009 e successivamente la Nunziatura apostolica in Serbia, a Belgrado, che attualmente regge. Scrittore, musicista e storico, mons. Antonini è uno tra i più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo. Di capitale interesse scientifico le sue pubblicazioni, come “L’architettura religiosa aquilana” volumi 1 e 2, “Manoscritti d’interesse celestiniano in Francia”, “Chiese dell’Aquila”, “Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus” e “Villa Sant’Angelo e dintorni”. Le sue pubblicazioni sull’architettura religiosa sono punto di riferimento imprescindibile per studiosi e storici dell’urbanesimo abruzzese.


30 Marzo 2011

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