Sulle cosiddette aree bianche


L’Aquila – L’avv. Rodolfo Ludovici ci invia il seguente intervento chiarificatore: “In questi giorni si è assistito ad un serrato dibattito su quelle aree, inserite nel nostro Piano Regolatore, che vennero destinate, fin dal lontano 1975 (data di adozione del P.R.G.), alla realizzazione di servizi pubblici (a norma del D.M. 02.04.1968, n. 1444) e, per questo, sottratte ad una qualsiasi utilizzazione da parte dei proprietari.
Sia la Regione, tramite l’Assessore all’Urbanistica e sia la Provincia, tramite il suo Presidente, hanno sentito la necessità di lanciare un allarme in quanto, a loro parere, la soluzione di questo problema rischia di stravolgere l’assetto urbanistico della nostra città.
Nulla dice in proposito il Comune che, però, pur non operando scelte in proposito, ha fortemente ostacolato i privati proprietari dei terreni resi del tutto inutilizzabili per i vincoli imposti dal P.R.G. costringendoli, per questo, a chiedere la tutela giudiziale dei propri diritti e che, dopo aver ottenuto la condanna del Comune a dare una diversa destinazione urbanistica ai loro terreni, hanno richiesto ed ottenuto la nomina di Commissari ad acta per la soluzione del loro problema.
Ritengo necessario intervenire in questo dibattito non solo in qualità di difensore di alcuni di questi proprietari ma, soprattutto, come cittadino in quanto ho dovuto notare che sia l’Assessore Regionale all’Urbanistica e sia il Presidente della Provincia hanno auspicato una soluzione del problema direttamente ancorato ai principi di razionalità urbanistica e, quindi, alla centralità del piano regolatore generale, chiamato a dare nuovo vigore e forza ai vincoli ad alle normative di salvaguardia, ormai scadute fin da 1984.
Il sistema urbanistico che sembra essere stato evocato per salvaguardare il futuro della nostra città rimetterebbe, per questo, alla sola discrezionalità amministrativa e, quindi, esclusivamente alla classe politica che ci amministra, le esigenze di pianificazione e l’individuazione dei criteri attuativi degli interessi pubblici, al di fuori di una concreta mediazione con gli interessi individuali e, quindi, dei diritti dei cittadini.
La consistenza giuridica ed economica di tali diritti dovrebbe, di conseguenza, essere affidata alla discrezionalità dei nostri amministratori, in aperta violazione della riserva di legge dettata dalla nostra Costituzione (art. 42) e dai principi sanciti dalla normativa europea.
Una tale visione del problema non solo non appare conveniente ed opportuna ma non risulta attuabile.
Da tempo, infatti, la concezione di una urbanistica autosufficiente, basata sui poteri forti della pianificazione, tenuti tenacemente in mano dal potere politico, e sull’esaltata presunzione di poter gestire, indirizzare e determinare l’intero regime dei suoli, si è venuta a scontrare con i principi di partecipazione e di perequazione, più vicini al cittadino.
Si assiste, per questo, ad un momento estremamente dinamico, caratterizzato ed influenzato, da una parte, dall’esperienze ormai sessantennali basate sulla legge fondamentale del 1942, e dall’altra, da una nuova visione della posizione del cittadino, più garantito sia nell’espletamento del procedimento amministrativo e sia nell’adozione dei provvedimenti.
Tale forma di urbanistica concordata e basata su accordi tra il privato e la P.A. si è venuta ad affermare nella prassi in quanto ha trovato sostegno nella giurisprudenza costituzionale ed europea ed oggi fondamento normativo.
Quindi nel nostro paese a fianco ad una legislazione urbanistica fondata su strumenti autoritativi e su una gerarchia discendente di piani si è affiancata una prassi anche normativa basata sull’accordo tra il privato la pubblica amministrazione.
A partire dal 1995 alcune regioni come la Toscana, Umbria, la Liguria e la Basilicata, ed a seguire quasi tutte le altre (tranne la nostra) hanno modificato il sistema dei piani urbanistici locali sulla base della critica che da più parti si era mossa allo zoning ed alla zonizzazione, avvertendo la necessità di operare non sulla base di un unico piano regolatore generale comunale ma su una scissione di questo in due livelli operativi e, precisamente, nel piano strutturale, contenente gli indirizzi generali di sviluppo del territorio ed una disciplina minima per tutta l’area interessata, soprattutto diretta al rispetto di limitate zone, e nel piano operativo il quale, nell’ambito degli indirizzi del piano strutturale, disciplina le scelte sostanziali e gli indirizzi generali.
Nella logica di una pianificazione non più basata su un unico piano ma su quello strutturale e su quello operativo l’ambito riservato agli accordi tra i privati ed i comuni viene ad ampliarsi ed ad assumere finalità e scopi molto diversi da quelli dei piani e dalle convenzioni di lottizzazione, nei quali la possibilità di negoziare era rigidamente delimitata dalla disciplina già contenuta nel piano regolatore generale.
Questa nuova visione della pianificazione urbanistica si affianca ai più recenti orientamenti che, da qualche tempo, hanno modificato il procedimento e, più recentemente, anche il provvedimento amministrativo.
Il legislatore contemporaneo sta dimostrando, infatti, una generale tendenza alla privatizzazione dell’azione amministrativa.
Il dogma che la pubblica amministrazione debba agire, necessariamente, per atti imperativi o per atti unilaterali viene oggi posto a confronto con la considerazione che il negozio giuridico di diritto privato di per sé è strumento idoneo al perseguimento dei più diversi risultati e, quindi, anche dello specifico interesse pubblico cui l’amministrazione deve informare la propria azione.
La possibilità che la pubblica amministrazione possono utilizzare lo strumento negoziale in via alternativa al provvedimento unilaterale attiene, peraltro, alla forma e non intacca la sostanza della funzione amministrativa in quanto essa resta sempre, anche nell’agire consensuale, ancorata all’interesse pubblico e, per questo, la possibilità di utilizzare strumenti negoziali appare un ulteriore modo del perseguimento dell’interesse pubblico
In campo urbanistico una serie di leggi hanno ritenuto gli accordi tra privati e P.A. fondamentali in merito ad importanti funzioni quali quelle di recupero dei centri storici degradati o delle periferie e della realizzazione di infrastrutture di uso pubblico.
Tramite tale partecipazione non solo il privato può difendere i propri diritti, ma è a lui consentito intervenire nella formazione del provvedimento, facendo specifiche proposte, con la conseguenza che esse, all’esito della valutazione compiuta, possano essere ritenute come le più rispondenti all’interesse pubblico e che, quindi, determinino, in tutto o in parte, il contenuto dell’atto amministrativo che viene adottata.
Dunque la possibilità della P.A. di operare per atti consensuali, in uno con i diritti di partecipazione dei cittadini, esplica una importante funzione nel campo urbanistico che merita attenzione non solo per quanto attiene l’elaborazione dei nuovi strumenti di pianificazione ma anche per risolvere i molti nodi che l’impostazione della legge fondamentale urbanistica ha determinato ed, in particolare, quello dei vincoli urbanistici.
Ma oltre che non attuabili le soluzioni che sembrano scaturire dal dibattito sulle aree bianche o ex vincolate rappresentano un pericolo per il nostro Comune in quanto ove i proprietari di esse non potessero veder risolto, dopo oltre 35 anni, il loro problema potrebbero, sicuramente, chiedere il risarcimento dei danni da loro subiti, come espressamente ammesso dalla Corte Costituzionale ed in conformità con i principi europei, sempre riconosciuti della Corte Europea del Diritti dell’Uomo.
In particolare la Corte Europea conferma e mantiene un approccio al tema di tutela della proprietà attento alla concretezza dei fenomeni economici, ai pregiudizi subiti dai proprietari e, quindi, alla necessità di ovviare ai detti pregiudizi.
In particolare la Corte Europea ha riconosciuto dovuto il risarcimento con riferimento non nella perdita della proprietà, rimasta – nel caso dei vincoli scaduti – formalmente in capo al privato, ma nel congelamento di essa, connesso, quindi, con la perdita del valore d’uso del bene e con la distruzione del suo valore di scambio, che può essere temporanea (fino ad una nuova destinazione urbanistica non vincolata) o definitiva (vista la reiterabilità dei vincoli scaduti).
La Corte Europea, dunque, considera espressamente indennizzabili i pregiudizi afferenti il periodo di tempo necessario per la risoluzione del problema, tramite una diversa previsione conformativa o la riapposizione del vincolo, nei quali la proprietà è restata assoggettata al regime delle c.d. “zone bianche”, imponendo, cosi, in capo alla P.A., da un lato, l’obbligo di una immediata ripianificazione allorchè venga a crearsi una zona di territorio non regolamentata dalla pianificazione generale (parag. 90 e 91) e, dall’altro, l’obbligo di una equa riparazione.
Per la Corte Europea, dunque, sussiste la violazione del principio del rispetto della proprietà (art.1 del protocollo addizionale n. 1 alla convenzione europea dei Diritti dell’Uomo firmato a Parigi il 20.03.1952) qualora, tramite il mantenimento di un vincolo protratto nel tempo (nel caso di specie per 26 anni), senza indennizzi, si è determinata una completa incertezza sull’utilizzazione edilizia del bene, e, dunque, un peso sullo stesso esorbitante rispetto ai parametri consentiti dal trattato che rende necessario una equa soddisfazione del privato ex art. 41 della Convenzione (Sent. Corte Europea Dir. Uomo 02.08.2001).
Tali principi non sono estranei al nostro ordinamento così come risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999 che ha ritenuto di carattere patologico una proroga sine die dei vincoli urbanistici, non contenuta in termini di ragionevolezza, senza previsione indennitaria.
Per concludere il mio intervento che, sicuramente non ho saputo rendere meno noioso, ritengo di sottolineare che oggi evocare soluzioni che non tengano conto dei diritti dei cittadini si dimostra solo un tentativo di confondere ulteriormente la vicenda, a completo danno dei cittadini e non solo di quelli che sono oggi proprietari di terreni ex vincolati.
Infatti è sicuramente nella possibilità del Comune riapporre i vincoli decaduti ma, in questo caso, dovrà pagarne gli indennizzi ed i risarcimenti.
Per questo, ove si venisse a determinare la scelta di mantenere gli spazi per i servizi pubblici, nella stratosferica dimensione imposta dal P.R.G., nonostante la loro conclamata inutilità, ci sarebbe da chiedersi chi pagherà tale scelta con la sola risposta possibile: i cittadini di L’Aquila che, forse, hanno dovuto già pagare molto di più di quanto sia possibile chiedergli.


04 Luglio 2011

Categoria : Dai Lettori
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